Intervista con Distrozione

Una chiacchierata con Distrozione, etichetta DIY dal 2005

L’intervista odierna sarà ad alto tasso di musica, punk, DIY e politica. Infatti abbiamo il piacere di presentarvi la nostra chiacchierata virtuale con i compagn* anarchic* di Distrozione, progetto autogestito comprendente una distro, etichetta indipendente e organizzazione di concerti, molto attivo sul fronte dei benefit e della solidarietà dal basso.

Radio Punk: Ciao ragazz*, benvenuti! Raccontateci un po’… Come nasce Distrozione? Qual è la sua vocazione principale? È più un’etichetta che “produce” o più una realtà di distribuzione e organizzazione di concerti e festival?
DISTROZIONE: Ciao ragazz*! Innanzitutto grazie per lo spazio che ci dedicate e per il vostro lavoro d’informazione su musica e politica! Distrozione nasce nel 2005 tra gli svarioni di giovani punx. In principio iniziammo a parlare di questo progetto in un paio di persone attraverso delle chat su SLSK. Al tempo ero un giovanissimo punk con tanta voglia di fare e dai facili entusiasmi. Infatti tempo di conoscersi e parlare di mettere su un’etichetta che mi trasferii a Roma per iniziare questo progetto (e anche perché al tempo non è che sapessi bene che fare della mia vita ahah). Al tempo non c’erano smartphone e manco erano così diffusi i social network. Una parte della “scena” di allora si incontrava nella rete tramite appunto tramite SLSK. Si trovavano sicuramente le pagine MySpace di alcuni gruppi ed etichette ma per fortuna c’era ancora la tendenza ad avere siti e blog propri ma sopratutto c’era una fortissima tendenza ad andare da qualsiasi parte a vedersi concerti, per beccare altr* amic*, fuggire dalla propria realtà. Per me è stato un periodo carico d’emozioni e di crescita. Il progetto Distrozione ha sicuramente influenzato le mie scelte da li in avanti. Sopratutto quelle politiche. La vocazione, ma preferisco parlare di tensione, della distro era sicuramente in primis quella di cercare di collegare maggiormente quella che al tempo era la “scena” punx e i nostri interessi politici (al tempo ammetto anche molto confusi). Connotare politicamente i concerti e cercare di fare un discorso sensato su etica e attitudine. Nei primi due anni come etichetta non abbiamo prodotto nulla di nostro. Eravamo principalmente un banchetto di fanzine, grafiche e dischi di amic*. Col tempo abbiamo iniziato a produrre sempre più dischi di diversi generi. Cercando però di non tralasciare l’aspetto tour e benefit. Insomma per rispondere alla tua domanda direi un 50 e 50… Cerchiamo di fare tutto quello che possiamo e che ci prende bene.

RP: La vostra etichetta nasce nel 2005, come vi siete rapportati con le etichette indipendenti storiche di Torino, nate nel passato? Pensate che in qualche modo ci sia continuità? Si può ancora parlare di uno “stile” torinese?
D: In realtà Distrozione è diventata un’etichetta “torinese” solo nel 2011. Prima di allora eravamo davvero nomadi. Nei primi anni dell’etichetta eravamo diverse individualità di diverse città quindi eravamo in contatto e presenti dal nord al sud Italia, cercando di collaborare ed entrare in contatto con tutte le realtà affini del tempo. Rispetto la questione di continuità. Non so davvero rispondervi, mi sembra che nel tempo molto è stato perso riguardo a tensioni, voglie e attitudine. Temo che quello che un tempo ci ha spinto a creare questo progetto si sia affievolito nelle nuove generazioni. Notiamo un’affaticamento inutile nel tentare di coinvolgere altre persone nell’organizzare eventi e benefit ma forse è solo stanchezza nostra eheh. Sicuramente si può parlare di una Torino HC se si parla di uno stile di suonare HC ma faccio fatica a immaginarla come una rete di rapporti tra individualità che cercano, insieme di costruire qualcosa di alternativo. Abbiamo avuto (e abbiamo ancora) grandi band nella città sabauda (e tanta gente che si sbatte per fortuna) e penso che in futuro usciranno altri e nuovi gruppi pronti a buttarsi nella mischia, portando avanti quello stile che solo nella città grigia si può trovare.

RP: Approfondendo un po’ la vostra storia, quello che avete prodotto negli anni, si evince una diversificazione di interessi musicali. Parlando di scelte artistiche, cosa cerca maggiormente, oggi, Distrozione?
D: Prima di tutto devo sottolineare un punto che mi sta molto a cuore: qualsiasi scelta basata su un profilo “estetico”, quindi meramente musicale o attitudinale, è lecitissimo a livello personale ma in una collettività risulta secondo me inutile e borghese. Mi spiego: Distrozione ha una lunga storia di coproduzioni e distribuzioni crust e grind, ma se fosse una distro specificatamente crust e grind perderebbe molto del suo potenziale politico per una scelta estetica, quindi di etichetta. Non abbiamo quindi esigenze “artistiche” per scegliere coloro coi/colle quali collaborare, ma politiche e quotidiane. Io ad esempio sono un grandissimo fan del postpunk, dell’industrial e eeeeehmmm… della trap! Però non potrei mai pensare di co-produrre un disco di tanta gente che mi ascolto perché ci sono delle differenze d’intenti davvero tanto ampie. Ci piacerebbe avere complici, non soci.

RP: Oggi per una band che non vuole inserirsi nei canali standard di distribuzione (Spotify, Itunes, ecc.) è molto difficile non solo emergere ma anche solo avere un po’ di visibilità, in che modo le realtà come la vostra possono avere un ruolo fondamentale in queste dinamiche?
D: Guarda, sinceramente questo lo ritengo un non-problema per Distrozione. Siamo consapevoli che tante band optano per il DIY perchè non trovano spazio nel mercato, ma noi intendiamo esso come pratica CONTRO il mercato stesso. Prendiamo due esempi del passato: etichette indipendenti come Rough Trade hanno spinto un sacco di band fighissime che nell’epoca del prog prima e del synth-pop poi non avrebbero trovato spazio, e questo è sicuramente lodevole, ma la dinamica che si innestava era la formazione di una sorta di contromercato che non andava a tangere le etichette discografiche. Tutte le etichette legate ai/alle Crass come Crass Records, Corpus Christi, Mortarhate, In Nomine Patri ecc invece intendevano il DIY come offensiva al mondo delle merci, e quindi piuttosto che creare un safe space per band poco commerciabili creavano un circuito completamente alternativo al mondo musicale. Ecco, tornando ai giorni nostri quello su cui possiamo dare un contributo, come etichette indipendenti, anche importante è la ricostruzione di questo circuito, sicuramente non una visibilità maggiore alle band.

RP: Cosa cercate in una band per poter iniziare una collaborazione? Mi riferisco sia da un punto di vista artistico sia per altri aspetti. Cosa ritenete imprescindibile?
D: Di imprescindibile ci sono per forza una serie di – scusa la parolaccia – “valori” come la liberazione di e dal genere, della specie, l’antirazzismo, insomma essere anticapitalist*, ma oltre a questo cerchiamo di collaborare con gente che condivide con noi l’idea che il DIY non è solo belle parole accompagnate da musica e/o rumore, ma un tentativo collettivo di offendere (nel senso di atto ad offendere, attaccare, distruggere) il mercato e il mondo che porta con se’.

RP: Avete collaborato con molte realtà italiane e straniere che come voi appoggiano una cultura musicale che non si colloca nei contesti mainstream. In che modo pensate che si possa resistere alle logiche del business anche nel campo della musica e in che modo si può parlare di sostenibilità? Che suggerimenti potreste dare ad una band emergente che fa un certo tipo di musica e che si muove in un certo contesto culturale e politico, per elaborare un progetto artistico che possa avere un seguito?
D¹: Io personalmente l’unico consiglio che mi sento di dare è una cit. dai Desperate Bycles: “No more time for spectating. Tune it, count it, let it blast, cut it, press it, distribute it”, smettila con le deleghe, anche quelle delle varie scene “alternative”.
D²: Ad oggi credo sia davvero difficile riuscire a restare al di fuori dalle logiche del consumo e del capitalismo. Per una band emergente che cerca di portare avanti discorsi di critica radicale, nei fatti e non solo nei testi, immagino sia più che complicato non utilizzare canali mainstream e di fatto ormai nella “scena” si è totalmente sdoganato l’utilizzo dei social network cosi detti “di massa”. Ci si è un po’ persi quindi nel marasma dei “like” e delle condivisioni. C’è sempre meno gente ai concerti e più che mai ad oggi vediamo davanti ai nostri occhi un quasi totale svuotamento di quei contenuti che sono, per noi, imprescindibili e che vanno al di là di quattro accordi e due grida su un palco (ma forse questo è falso, nel senso che in fin dei conti dipende molto da dove, quando, come… non siamo ovunque! Ma è quanto meno la mia percezione personale, quindi tranquillamente sbagliata eh). Non credo ci siano dei veri suggerimenti che si possano dare per elaborare un progetto artistico (??) che possa avere un seguito, non c’è una ricetta specifica. Ci sono per fortuna diverse individualità. Ognun* di noi ha tensioni diverse ed è animat* da ognuna di queste. Credo sia importante restare lucidi riguardo quel che ci capita intorno. Riuscire a cogliere quali sono le cose importanti per cui lottare e cercare di dedicarcisi. Direi che l’unica cosa che mi sento di dire è che è importante essere onest* con se stess* e sbattersi il più possibile per costruire rete e aggregazione all’interno dei propri progetti.

RP: Un’esperienza senza dubbio centrale per Torino e non solo. Vi va di parlarci de L’Asilo? Ha giocato un ruolo importante per voi?
D: Parlare de L’Asilo occupato nella sua complessità mi è davvero difficile (oltre al fatto che sarebbe lungo e noioso probabilmente). Rispetto il progetto dell’etichetta, l’essere a L’Asilo occupato è stato sicuramente importante per diverse ragioni. Prima su tutte forse il mettersi in discussione con compagni e compagne con cui condividi lo spazio ed i progetti di lotta e di vita rispetto ad ogni cosa. Imparare che non si ha sempre la risposta migliore, in generale per tutta una serie di aspetti devo ammettere che il progetto Distrozione nel primo periodo in cui ho vissuto a Torino è stato in qualche modo rallentato nel produrre ma in compenso io personalmente penso di aver imparato tanto, e tanto ho ancora da imparare, in questi anni. Sono stati sicuramente anni intensi, di lotte, di gioie e di dolori, alcune ferite credo rimarranno per sempre così come i sogni e le tensioni. L’esperienza dell’Asilo occupato è finita in qualche modo con lo sgombero ed è nonostante questo riuscita a resistere e ad andare oltre. In fin dei conti una realtà non è fatta di 4 mura ma di ben altro. Personalmente ora sto riflettendo sugli ultimi anni e sto cercando anche di far tesoro degli errori e delle mancanze. Penso sia importante riuscire ad analizzare quel che non siamo riuscit* a fare e come far meglio. Approfitto di questo spazio per fare autocritica (come dovrei/dovremmo fare maggiormente) e per dire che a volte quando viviamo esperienze quasi totalizzanti rispetto al tempo e alle energie impiegate (come è stata per me l’esperienza del Asilo) ci può capitare di autorafforzare le nostre idee e convinzioni, a volte credo mi sia capitato di non riuscire a vedere davvero la complessità dei discorsi, totalmente fagocitato dalla fretta di fare e dai tempi scanditi delle lotte. Credo di aver capito, e forse anche tardi e quindi ferendo delle persone, che bisogna fermarsi e ragionare anche su se stess* e sulla posizione che occupiamo in questo mondo. Ma piuttosto che riflettere su un posto credo vada ampliato lo sguardo verso le cause che hanno portato forse al suo sgombero e a quello che il futuro ci prospetta, due cose intimamente legate. Il quartiere in cui sorgeva l’Asilo. Aurora, è da tempo sotto gli occhi di palazzinari, speculatori e gentrificatori di varia risma, tanto che non si contano gli sgomberi e le varie “pulizie etniche” poliziesche susseguitesi in questi anni. L’Asilo, in quanto posto storicamente refrattario a qualsivoglia forma di pacificazione, era una spina nel fianco di questa gente e, con l’ennesima operazione repressiva, l’anno scorso questa spina venne sradicata. Ebbene oggi, dato che vediamo spazi occupati più o meno conflittuali sotto attacco, sarebbe interessante riflettere su come rispondere a queste offensive (e le iniziative subito successive allo sgombero dell’Asilo possono essere un buono spunto) e soprattutto, perchè non si può sempre giocare in difesa, come crepare le città vetrine che viviamo un po’ ovunque.

RP: La repressione è una brutta bestia. Come, progetti come il vostro, potrebbero giocare un ruolo fondamentale contro di essa e più in generale contro questo sistema balordo e votato allo sfruttamento? Quali iniziative/pratiche sociali, politiche e culturali ritenete fondamentali per il progetto Distrozione?
D: Benefit. Possibilmente anticipati da una discussione di critica radicale e/o di aggiornamento sulla situazione delle lotte e dei/delle compagn* in galera. Riprenderci le strade, ritornare a sognare che tutto quello che vogliamo fare si può fare. Tornare a suonare nei posti occupati e nelle piazze. Sostenere attraverso le produzioni e le vendite dei dischi quelle persone che si spendono ogni giorno contro questo esistente. Diffondere la voce di chi lotta e le sue istanze. Ci piacerebbe riuscire ad organizzare degli eventi di aggregazioni più ampi riuscendo ad eliminare in qualche modo le logiche che ci dividono tra consumatori/consumatrici e staff. Vorremmo, in un futuro, sapere che x punk che viene ad un benefit sa che sta dando dei soldi per quella specifica causa e che lo fa perché vuole contribuire. Non è li solo perché gli piace la serata. Vorremmo, in un futuro, vedere x punx che montano l’impianto con noi e puliscono a fine concerto perché nessun* lo fa di mestiere perché vorremmo che non ci fosse differenza tra chi organizza. suona, partecipa e sistema. Perché crediamo che attraverso l’aggregazione nei concerti e nelle serate si possano costruire forme di complicità e fiducia d’affinare ed espandere poi nelle lotte e nelle strade.

RP: Una domanda che può essere interessante per chi leggerà ed è molto giovane/inesperto. Perché è così importante l’unione tra punk e politica?
D: Punk è politica perché punk è o dovrebbe essere una reazione alla sopravvivenza del quotidiano. Non importa se parliamo del nichilismo del primo punk, della consapevolezza dei gruppi anarchici (che è l’attitudine che preferiamo) o il senso di unità dell’Oi!, sono comunque tutte grida contro un mondo che ti vuole isolat* e vittima di chi ha più potere di te. Il punk è sempre stato questo, un grido di rabbia e frustrazione, un invito al superamento (non IL superamento, attenzione, perché il punk non basta se’ stesso) e un voler andare oltre le possibilità stabilite da questo presente, è volerci riprendere un immaginario di rivolta e libertà. Credo che questa unione, di intenti e tensioni tra il punk e l’anarchismo sia importante perché senza sarebbe solo un bello spettacolo privo di contenuti. A quel punto tanto vale fare pop, no? È importante continuare a sostenere le realtà occupate in lotta e di conflitto. Veicolare messaggi di rivolta e rappresaglia attraverso la musica e la rabbia. Ho da sempre il sogno di concerti punk in strada che diventano momenti di attacco contro questo mondo e le sue regole. So che da qualche parte in Europa (e non solo) questo a volte capita. Concerti che sfociano in riot, occupazioni, contestazioni di diversi tipi. Insomma, il punk non è (per noi almeno) solo un contesto musicale ma un vero e proprio movimento con potenzialità rivoluzionarie. È un veicolo per incontrare nuovi complici e individualità a noi affini. È qualcosa che va davvero oltre la semplice serata o il tour. Sono momenti in cui possiamo incontrarci, scambiarci idee, sostenerci e sostenere chi è in carcere (attraverso i benefit). Forse vorrei rispondere che questo legame è importante perché il punk senza la politica non sarebbe punk ma temo che ad oggi ci siano più e più gruppi che si definiscono tali con contratti a grandi etichette discografiche. Se il punk è morto. Almeno vendichiamolo.

RP: A questo punto vi ringraziamo per il tempo concessoci, vi salutiamo, abbracciamo e vi lasciamo al consueto spazio libero in cui potete dire quello che vi pare a chi leggerà! Viva!
D: Grazie a tutt* quell* che suonano nei posti di merda. nei festival di merda. Con gente de merda. Grazie a quelle etichette che organizzano i concerti e festival di cui sopra e grazie a chi riesce ad andare ovunque, farvi i concerti e dire che è stata una bella serata anche se nel mentre sono successe 5000 storie de merda (ma voi non ve ne siete accort*) e quando qualcun* lo fa notare riuscite a non dir niente a riguardo o peggio a dar dei/delle bacchettonx/punx police. GRAZIE DAVVERO! continueremo a darvi fastidio. continueremo a dirvi che non ci piace. continueremo a tentare di crescere e migliorarci. Perché in fin dei conti. A dirla tutta. Di tutt* voi non ce ne frega nulla. Cerchiamo complici, non merce.