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La rivoluzione inizia quando chiude il bar

Parole, suoni e aggregazione casalinga: la rivoluzione ai tempi della quarantena, tra visioni
alcoliche e faccende domestiche

Mi alzo finalmente dal divano, facendomi coraggio. Uno sforzo immane, che mi costringe a mettermi in piedi, indossare le pantofole dell’Inter e trascinarmi verso la cucina. Apro il frigo, caccio fuori una bottiglia da 66 di Bavaria, ormai fresca al punto giusto. Infilo una manciata di arachidi in una ciotolina, torno in salotto e appoggio tutto sul tavolino.

Sono le 18.30, fuori c’è ancora un barlume di luce solare. Appena prima di alzarmi faticosamente dal divano, mi sono detto: “È orario di aperitivo”. Dopo una giornata di “lavoro”, tra e-mail inviate, una riunione via Skype, una videochiamata con un utente del servizio per cui lavoro da educatore, mi pare il minimo godermi questa bella porzione di giornata. Per di più di venerdì.

Mi svacco sul divano, accendo il televisore e attivo You Tube dal piccolo decoder collegato all’apparecchio. Selezione random di canzoni, tra successi dell’era “Madchester” (Happy Mondays, Stone Roses, Primal Scream, Oasis), anthem Oi! (Booze & Glory, Evil Conduct, Nabat, The Business), qualche pezzo rap d’annata (Cypress Hill, Sangue Misto, Run DMC) e gli immancabili ritmi in levare (Symarip, Toots & the Maytals, The Specials, Bad Manners).

Un aperitivo casalingo con tutti i crismi del caso avrebbe meritato una selezione accurata tra i vinili accatastati tra un granello di polvere e l’altro. Ma oggi va così, minimo sforzo e massima resa. La birra scende piacevolmente lungo il canale che dall’ugola arriva allo stomaco, dandomi quella sensazione di freschezza e leggerezza che ogni sorso produce nella sua discesa verso gli inferi del mio apparato digerente ed emozionale.

Sorseggio la mia pinta casalinga facendo due chiacchiere in videochiamata con un tot di amici. Abbozziamo pure un brindisi a distanza, che non so se mi fa più sorridere o intristire, ma tant’è. Tra un “come procede?”, un “voi tutto bene?” e il decantato “oggi sono andato a far la spesa, che figata!”, passa una buona mezzoretta, in cui ho fatto a tempo a scolarmi un’altra boccia da 66. “I’m feeling supersonic give me gin and tonic” esce dagli altoparlanti del televisore. Vado un attimo in cucina, giusto il tempo di prepararmi un Campari con una spruzzatina di Roero Arneis.

Penso: “Siamo solo all’inizio della quarantena”. Un’auto-esortazione, che ripropongo a tutti gli interlocutori con cui ho a che fare in questo periodo, familiari e amici. “Bisogna avere pazienza, vivere ogni giorno per com’è, senza pensare a quando tutto finirà”. Se finirà.

Seguire le notizie dai media di varia risma, quelli ufficiali e non, i social network e le fake news, aiuta fino a un certo punto. Per lo più crea un’ipertrofia di informazioni, difficile da sbrogliare e sezionare. Un giorno si paventa l’unità nazionale, della serie: “Sconfiggeremo tutti insieme questo nemico invisibile”.

A tratti, invece, si vacilla. C’è chi dà addosso al runner di turno e chi rimbrotta l’anziano in mascherina che si ferma, a distanza di sicurezza, a chiacchierare con il dirimpettaio alla finestra. Presunti untori del terzo millennio. Fior di colonne infami di Manzoniana memoria, a chiudere ulteriormente la gabbia entro cui siamo tutti reclusi da settimane.

Ma oggi non ho voglia di pensare a ste cose. È venerdì, che cazzo!

Alzo un po’ il volume del televisore. La voce nasale del corpulento Buster dei Bad Manners canta “I am a cider drinker it soothes all me troubles away”. Ho solo birra e mirto, al momento. Va bene uguale. Accenno due passi di skanking, in tuta, felpa e le fidate pantofole nerazzurre. Sara mi guarda dall’uscio e scuote la testa, Whiskey mi corre dietro e mi salta addosso guaendo.

Un’energia improvvisa mi scuote da dentro come un vortice inarrestabile. Infilo scarpe e giubbotto e corro fuori da casa, urlando a squarciagola frasi sconnesse. Esco in strada e mi guardo attorno, come William Wallace in Braveheart, cercando cenni di intesa dagli inesistenti commilitoni.

Svegliaaa! Tutti in strada!”, grido senza avere alcun riscontro.

Cammino rapidamente senza una meta, ogni tanto mi fermo e cerco di origliare fantomatici rumori che la mia testa sostiene di sentire.

D’un tratto, come un viaggiatore solitario nel deserto, scorgo un miraggio in fondo alla via. Dapprima 3, poi 5, 10, infine 20 persone vengono verso la mia direzione. Inizio a urlare, agitare le braccia per farmi notare. Uno di loro ha un pallone e lo calcia in aria; la sfera impatta sull’asfalto e arriva a me dopo una serie di rimbalzi. Un altro tira fuori due torce e le accende, squarciando il velo di torpore che circonda la mia e le altrui teste da diversi giorni ormai. Qualche timida faccia dentro le case intorno alla strada scosta la tenda della finestra e osserva a metà tra lo sconvolto e l’incuriosito.

In un nonnulla la strada è piena di gente e stiamo giocando una partita a calcio in un numero imprecisato di contendenti. C’è chi sostiene una squadra e chi l’altra, con cori possenti e lo scoppio di qualche bombone di tanto in tanto. Addirittura tre ragazzini armeggiano con un generatore e un amplificatore con mixer, facendo partire una selezione di canzoni dei Public Enemy e dei Run DMC. Manca solo Spike Lee, a questo punto.

Il match entra nel vivo. Le squadre si studiano e cercano l’affondo.

Io recupero il pallone al centro del campo e dopo un dribbling secco mi libero dell’avversario, trovandomi a tu per tu con il portiere. Entrambe le porte sono delimitare da due segnali stradali di divieto di sosta divelti. Guardo l’estremo difensore che mi si fa incontro in uscita, lo metto a sedere con una finta di corpo e mi incammino in un viaggio infinito verso la meta, come Mark Lenders in una puntata di Holly e Benji. Il pubblico mi acclama, sento la sua spinta. In questo momento sono il padrone del campo, a un passo dal trionfo. “Death or glory” arriva dagli ampli a bordo campo, anche Joe Strummer è dalla mia parte.

È una frazione di secondo quella che mi pone dinanzi a un dilemma di natura tecnica e filosofica, allo stesso tempo: entro in porta palla al piede? Oppure appoggio la palla con il piattone?

È la lotta epocale tra arroganza e semplicità. Tra nobiltà e plebe. Tra i padroni e il popolo. 

Mentre penso al da farsi, la botta che arriva a togliermi d’impiccio è tremenda. È un male astratto, quello che provo. Non tanto per il tackle scomposto alla Vinnie Jones che mi ha atterrato senza troppi fronzoli. È per il pallone, che pian piano vedo allontanarsi dal mio campo d’azione, con lo sguardo rivolto alla porta vuota. E vedo anche questa dissolversi in un crogiolo di pixel indefiniti, assieme alla gente intorno che ha preso a correre all’impazzata senza una meta definita.

Sono ancora bloccato per terra, quando odo da lontano il dispiegarsi inconfondibile della sirena di una volante. Faccio per alzarmi ma non ci riesco. Qualcosa mi blocca sull’asfalto, non so che cosa. Avverto una strana umidità sulla faccia, unita a un soffio caldo che mi smuove piano piano dal torpore.

Che cazzo stai facendo?” mi dice Sara, mentre apro gli occhi in stato confusionario, sdraiato sul pavimento con la lingua di Whiskey che mi sbarlecca il viso da capo a fondo. Dal televisore le sirene in dissolvenza di “Police on my back” dei Clash mi riportano alla realtà delle 5 bottiglie di Bavaria vuote e della bottiglia di mirto scolata a metà sul tavolino. Mi tiro su goffamente, mentre i Serious Drinking attaccano con “Revolution starts at closing time”.

Devo andare a buttare la spazzatura.

L’autocertificazione la stampo domani, tanto a quest’ora chi cazzo ci sarà in strada.

Parole di Nicolò Rondinelli