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Putrid Fever: “i ritmi della paranoia”, dagli anni ’80 ad oggi

Speciale “raccontato” sui Putrid Fever, storica band hardcore degli anni ’80

È il 200x. Vado a scuola, aggiudicandomi ogni fine anno l’ambito debito che mi rimanda a settembre e condanna a corsi di recupero utili come le repliche delle previsioni del tempo. L’imminente arrivo a casa della connessione ADSL mi fa già assaporare l’abisso di pornografia gratuita che di lì a poco mi si sarebbe spalancato davanti. Penso che la vita sia dura, ignaro come solo un adolescente può essere del fatto che entro breve tempo il mio pane quotidiano saranno scodelle piene di merda fumante, così dentro o lontano dai guai, fino al giorno in cui morirai. Sono convinto che la maturità sarà la fine di un incubo, e infatti sono solo un povero coglione che non ha mai capito un cazzo. Nonostante io sia a bordo di una scialuppa di salvataggio senza remi né vela nel bel mezzo di un ciclone ormonale di livello 5, la possibilità di avere accesso alla rete non si appresta solo a consacrarmi cintura nera di masturbazione, ma mi darà modo finalmente di tenermi sempre aggiornato su concerti e nuove uscite. Le mailing list mi sembrano una manna dal cielo, ma c’è di più. C’è il papà di facebook: Myspace. 

Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana, quella che sarebbe cresciuta come una presuntuosa e sofisticata orda di teste di cazzo con baffi a manubrio, bici a scatto fisso e tatuaggi orrendi era ancora solo una semplice e stupida orda di teste di cazzo. Le loro toste giornate giravano così: farsi farcire in qualche durex party, ballare la tektonik o ingolfarsi di ketamina, anche se non necessariamente in quest’ordine. Erano tempi più semplici, o forse si scopava solo di più. Myspace era un cesso a cielo aperto, esattamente come qualunque altro social. Il calzino sporco e incrostato dove chiunque eiacula la propria frustrazione e inadeguatezza. Un pò come il vostro affezionatissimo.

Per le band tuttavia, era una buona piattaforma di autopromozione. Buona, non eccezionale. In sole due ore potevi caricare un flyer fatto con paint, ma soprattutto c’era il player. Chiunque poteva avere un assaggio di quel che il gruppo proponeva, i suoi migliori singoli diciamo, che i più cazzuti riuscivano pure a scaricare. Per me tuttavia, una delle fonti più inestimabili di informazioni restavano le bio, le brevi descrizioni sul lato sinistro. Cresciuto nell’era pre banda larga, il primo luogo dove trovare musica nuova era la musica stessa: le mai abbastanza incensate liste dei ringraziamenti. Decine e decine di gruppi, che per il solo fatto di venire menzionati in un disco figo dovevano per forza essere una mina. Spesso il ragionamento funziona. È da poco uscito un album che mi ha mandato fuori di testa. Loro sono italiani, vengono da fuori Bologna e hanno un nome semplicissimo, che però ti sminchia la ricerca su Google: ED. Nailed to the board diventa per me un’ossessione, lo ascolto all’infinito e cerco di studiare, lui e il gruppo. Vedo che sulla loro pagina elencano diverse delle loro influenze. Nomi mai sentiti prima, che negli anni saranno colonna sonora di tante cose, per lo più dimenticabili, ma pur sempre parte integrante della mia vita. Bl’ast!, The Faction, Corrosion of Conformity, R.K.L, Putrid Fever. Quest’ultimo è proprio un nome del cazzo, penso. Cerco di farmi una lista su un foglietto, in attesa dell’agognato sabato e del giro a cercare dischi. 

Crash Records è in una laterale di piazza delle Erbe. Vicino c’è il Pam dove prendere le birre, quindi è tappa obbligata. Il negozio è purtroppo chiuso da anni, e al tempo i dischi in vinile te li tiravano dietro perchè non li voleva più nessuno. Io li prendevo perchè costavano meno della metá rispetto a un CD. O tempora, o mores, porcodio. Non ricordo esattamente quando, dopo quanto tempo e in che modo, ma un giorno me lo trovo lì. Giallo, sgualcito, addirittura con un pezzo di scotch per renderlo piú presentabile. Di musica non capivo un cazzo allora e non capisco un cazzo nemmeno oggi, ma il nome mi era familiare. Ed è cosí che un bel giorno quel pezzo di plastica nera venne a casa con me. 

Ok, la parte del pezzo dove parlo dei cazzi miei è finita. Forse. Questo ep viene pubblicato per Belfagor records nel 1985. I Putrid Fever, a differenza di molti loro compatrioti dell’epoca, assorbono la lezione dell’hardcore britannico di scuola Discharge ma scelgono di andare oltre, e provare a guardare al di lá dell’Atlantico. Tra i loro ascolti devono esserci stati per forza i Bad Brains, i Verbal Abuse, i Black Flag e i Circle Jerks, perchè i dieci minuti scarsi si giocano tutti sempre sul filo del rasoio, fra picchi di velocitá e fraseggi midtempo, che contribuiscono ad amplificare l’atmosfera ansiogena e densa che le chitarre schiaffano nelle orecchie dell’ascoltatore. Nessuno in Italia suonava come i Putrid Fever, forse con la sola eccezione dei CCM. Anche nel caso di questi ultimi, le parole da spendere sarebbero decisamente troppe, e forse – sottolineo forse – me ne prenderò l’onore in futuro, ma non divaghiamo. Vipera è il batterista dei Cheetah Chrome Motherfuckers. Insieme a lui ci sono Fefo e Daniela, tre amici chiusi in uno scantinato o in un garage con una sola idea fissa in testa: tirare su un gruppo. Prove, sudore, la saletta che in mezz’ora acquisisce l’umidità del delta del Mekong in agosto. Tutte esperienze che chiunque secondo me dovrebbe fare almeno una volta nella vita. Nel 1983 registrano una cassetta, un demo di dieci pezzi che iniziano a far girare il più possibile. Amici, fanzine, gruppi, chiunque. Pezzi veloci, cantati in un inglese nettamente superiore alla scarsissima media degli altri gruppi dello stivale, e soprattutto con sonorità che nessuno aveva ancora messo a fuoco così bene, almeno questo è quello che ritengo io.

https://www.youtube.com/watch?v=B03WD3m47u8

I Negazione avevano sicuramente già fatto tesoro dei nuovi spunti forniti dai gruppi d’oltreoceano – se ne accorgerebbe anche un sordo – ma i Putrid Fever hanno sempre avuto un je-ne-sai-quoi che mi incuriosiva e incuriosisce tutt’ora. Non sembrava un gruppo italiano. La batteria guizzava più velocemente, non cercava solo di rincorrere il dbeat, partiva direttamente in quarta, salvo poi prendere fiato un attimo e assecondare accordi acidi, taglienti. Le chitarre hanno un forte base rock’n’roll, è evidente. Il dottor Ginn qui ha fatto scuola e si sente. Probabilmente, se fossimo nella terra delle sparatorie a scuola e del “non puoi permetterti di essere curato, quindi per cortesia crepa senza sporcare” un gruppo simile me lo sarei visto bene prodotto dalla Mystic Records, o in bella vista in qualche compilation di Thrasher Magazine. Ma siamo in Italia, per fortuna o purtroppo. Sta di fatto che il demo comincia a girare, e questi tre ragazzi iniziano a farsi conoscere. I posti per suonare sono drammaticamente pochi, ma ci si sbatte, si fa ciò che si deve, perché suonare è un bisogno, non un’opzione. In Toscana c’è un bel giro, specialmente se paragonato ad altre regioni. C’è il Victor Charlie, ci sono gruppi, insomma c’è materiale su cui lavorare. Si partecipa a compilation, due. Nella seconda, la cassetta “Senza Tregua” con alla voce l’inconfondibile Sid dei CCM. Le prove si susseguono, i pezzi migliorano e diventano sempre più scorrevoli, la miscela si avvia a trovare una sua alchimia. Fino a quando nel 1985 fa la sua comparsa Marco, quello che sarebbe diventato il cantante in questo benedetto Ep che potete ascoltare qui sotto, di cui io non ho conosciuto un cazzo per anni, se non le canzoni a memoria.

Tutt’oggi, uno dei miei dischi italiani preferiti di quel periodo. Disegnato a mano, registrato nel migliore dei modi coi pochi mezzi a disposizione, ammantato di mistero, con suoni unici che non riusciresti a riprodurre nemmeno con cinque metri di pedaline del cazzo. “Life is pain, pain is learn and soon you all will learn”. Un inglese traballante ma chi se ne frega, già dopo cinque secondi hai gli occhi di fuori e le pupille dilatate. Non sai esattamente cos’è, sai solo che ne vuoi ancora. L’assalto all’arma bianca iniziale è perfetto, come la discesa torrida e ossessiva nei “Rhythms of Paranoia” del finale. In mezzo, un mondo decadente in tinte elettriche, popolato da quegli stessi mostri che quasi sommergono la copertina. Un po’ come aprire la finestra alle cinque del mattino nel cuore della città, quando i latrati delle prime auto iniziano già a ricordarti che è iniziato un altro giorno, mentre tuttavia l’atmosfera sospesa della notte non si rassegna ancora alla ritirata. Alle cinque di mattina sei già rincoglionito di tuo, ma diciamo che anche la realtà non aiuta.

Le poche informazioni biografiche di cui dispongo sono infatti copiate – perché copiare è arte benemerita, in teatro e non solo – dal booklet di una ristampa antologica uscita in CD e LP per Spittle Records e Gonna Puke nel 2006, e su cui sono riuscito a mettere le zampacce solo in tempi relativamente recenti. Qui sono racchiuse tutte le registrazioni pubblicate dalla band, tra cui il 7pollici. Ascoltando tutti i pezzi l’evoluzione è evidente. Le basi ci sono tutte, già dal demo, ma è come un’immagine piantata davanti agli occhi appena svegli, che va rendendosi via via sempre più nitida, fino ad acquisire i suoi veri contorni.

Cito testualmente: «All’inizio degli anni ’80, quando tatuarsi era ancora considerato sfigurarsi in maniera permanente e gli unici centri sociali erano il “Virus” a Milano e il “Victor Charlie” a Pisa, quattro individui sinistri si unirono per formare un gruppo. Insieme a I Refuse It, C.C.M. e Juggernaut, questo gruppo sarebbe poi divenuto una pietra miliare del G.D.H.C (Gran Ducato Hard Core, n.d.a). Fefo Forconi, dopo diversi tentativi, diede vita insieme Daniela “nunmetoccà” Petrova e Andrea “Vipera” Salani (batterista dei C.C.M.) ai Putrid Fever. Per un anno non avevano un cantante di ruolo, finchè un giorno Marco Cellini, il front-man che i Putrid Fever avevano sempre sognato, si materializzò nei meandri di una cantina. Le uniche altre due cose da menzionare prima di ascoltare questo disco sono: la partecipazione vocale di Sid dei C.C.M. su due brani e che Fefo avrebbe poi avuto un futuro come membro dei senz’altro più famosi Toxic Reasons».

Ma c’è di più. Stando a quanto si può racimolare su Discogs (si, oltre a comprare dischi inutili a prezzi demenziali ci sono anche un fottio di informazioni utili, leggete teste di cazzo, n.d.a) il buon Fefo ha dato il suo contributo anche ad artisti del calibro di Jello Biafra, Ziggy Marley e i Birdmen of Alcatraz, prima di tornare a Firenze, fondare i Malfunk e militare persino negli Almamegretta. Mica cazzi oh. Si, lo so, “ma dai che recensione è?! Non hai nemmeno parlato del disco, ma sei scemo?!”. Probabilmente sì, e me ne rendo pienamente conto. Ma sono quindici anni che leggo recensioni e penso sempre “porcodio, speriamo il disco sia figo perché sta pappardella mi fa cascare i coglioni”. Quindi provo a fare qualcosa di diverso, sperando unicamente che le mie ciarle possano accendere una pur minima curiosità, e rendere partecipe qualcun altro di quelle poche cose che per me hanno un gran valore, per lo più pezzi di plastica nera con delle righe in rilievo. Potrei anche dirvi che “Can’t Hope in Dead” – il penultimo pezzo dell’EP omonimo – è una canzone che anche a distanza di tanti anni mi manda ancora completamente via di testa. Che ha dei riff e degli stacchi di batteria semplicemente perfetti e un dialogo a doppia voce che lo senti una volta e lo canti per una settimana sotto la doccia. Ma sono unicamente mie percezioni. In questo momento scrivo perché ho voglia – e tempo – di farlo, ma non per urlare al mondo le mie opinioni, piuttosto sperando che qualcuno se ne faccia di proprie. Magari una sera ci troviamo e ne parliamo. La struttura non è fissa, non pretende di esserlo. L’autore sono io e faccio quel cazzo che mi pare. Se non vi piace, provate a fare di meglio, non credo vi sarà difficile.

Ad ogni modo, per colpa di bastardi stiamo per morire, il disco originale costicchia un po’. Nulla di esorbitante eh, ma per un EP capisco che alcuni potrebbero storcere il naso. L’LP e il CD con tutta la discografia sono stati realizzati e tirati piuttosto bene, quindi occhi aperti che anche in giro a distro secondo me li beccate. La Flowers of Grain records aveva fatto una ristampa antologica in LP già nel ’94, con copertina diversa – e onestamente opinabile – e dal titolo “Do You Remember?”.

Dodici anni dopo – fra il 2006 e il 2010 – Spittle e Gonna Puke hanno fatto il colpaccio e rieditato tutto con l’artwork originale giallo e nero coi mostri che è una bomba. Se qualcuno decidesse di fare le magliette mi faccia un fischio perché questa grafica mi piace un botto. Come di consueto, allego le foto/scansioni o come cazzo preferite chiamarle della mia amatissima copia personale.
Scritto, non riletto e non corretto dal vostro affezionatissimo, mentre finge di lavorare molto sodo per i soldi.
Rash.

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