immagine per articolo godspeed you black emperor. foto di Luca Borsato

Godspeed You! Black Emperor: un “gruppo anarchico”? Un gruppo anarchico, eccome!

Marco Pandin di Stella Nera Edizioni ci racconta della band canadese Godspeed You! Black Emperor e del loro album “F♯ A♯ ∞”

Un “gruppo anarchico”? Un gruppo anarchico, eccome!

Ciao Kanada, ciao musicisti kanadesi.
Grazie per i vostri voti e grazie per il premio, sembra bello avere un riconoscimento da questa nostra Povera Patria quando ci sentiamo così spesso soli e abbandonati. Massimo rispetto a tutti i giornali che scrivono dei piccoli gruppi musicali, voi che battete la grancassa perché il frastuono che fate è fondamentale e importante e necessario. E massimo rispetto soprattutto ai giornalisti indipendenti, perché rimanere indipendenti cazzo è sempre più difficile, al giorno d’oggi praticamente siamo quasi tutti degli indipendenti, vero? Tutti occupati a cadere e rialzarci, a sgomitare, a darci da fare per guadagnarci il pane in questi tempi difficili.

Ebbene sì, ve ne siamo grati. E sì, siamo modesti e imbarazzati e ci troviamo a disagio per questo riconoscimento ma porco dio sono quasi vent’anni che ci facciamo il culo restando al margine della controcultura e il pensiero di partecipare a uno spettacolo del tipo “com’è bello stare qui ma chi cazzo se ne frega dei premi” non ci ha mai neanche lontanamente sfiorato. 

Tre punti veloci sui quali forse siamo concordi quasi tutti.
– Ci sembra davvero strano partecipare a una premiazione di lusso in questi tempi di austerità e crisi diffusa.
– Siamo convinti che organizzare una manifestazione in cui dei musicisti entrano in competizione per della chincaglieria fatta a forma di assegno non serva affatto alla causa della musica.
– Chiedere alla ditta automobilistica Toyota di sponsorizzare questa manifestazione proprio adesso che le calotte polari si sciolgono in diretta su internet è proprio roba da fuori di testa, è sbattersene i coglioni alla grande dell’orrendo malessere dei nostri tempi.

Sono tempi duri per tutti, e il malumore dei musicisti ha priorità praticamente zero nella lista delle cose che hanno bisogno urgente di un’aggiustata. Ma se, e ripetiamo se, l’obiettivo di questa manifestazione e di questo premio è dare un riconoscimento all’impegno e al lavoro dei musicisti che si sbattono per qualche cosa di diverso del fare soldi in fretta, allora la prossima dovrebbe tenersi in un luogo più adatto e sobrio, senza le insegne delle multinazionali e dei padroni della cultura. Quella sì che sarebbe una festa che meritiamo sia celebrata da tanto tempo, e sarebbe davvero bellissimo parteciparvi. Un domani, chissà, da qualche parte. Quando rallegrarsi per i soldi facili non sarà un motivo buono per fare festa.

Date i soldi ai ragazzi, che li spendano per fare festa come cazzo meglio credono. Date i soldi ai vecchi, permettetegli di scrivere le loro opere nonostante tutto. E che le stelle della musica e della televisione si diano pure battaglia in questa terra di mezzo incoerente e inutile, ma non riempitegli le tasche coi soldi dei fondi statali per la cultura.

Quanto a noi, destiniamo questi soldi a un progetto di scuole di musica nelle carceri del Québec. Potranno comprarsi degli strumenti, se lo vorranno.

Amen e ancora amen.

Ci spiace essere dei rompicoglioni ma vi vogliamo bene, e il nostro paese è in rovina. Baci baci baci.

[lettera inviata alla stampa, alla giuria e agli organizzatori e letta da Ian Ilavsky della Constellation in occasione della serata finale del Polaris Music Prize, il più importante premio musicale canadese. I Godspeed avevano vinto 30,000 dollari perché il loro album “Allelujah! Don’t Bend! Ascend!” era stato votato dalla giuria quale il migliore album indie del 2013].

Per una volta la smetto di menarvela con gli anni Settanta e Ottanta. Vi racconto di una cosa un po’ più vicina al nostro presente, e probabilmente qualcuno manco la riterrà “punk” – dai, mica vi scandalizzerete per così poco, spero.
Ecco, ricordo quella volta che ho comprato al buio “F#A#∞” – il primo album dei Godspeed You! Black Emperor nel 1998. Era da un pezzo che non compravo più dischi – anzi a dirla tutta solo qualche tempo prima mi ero ritrovato costretto a venderne un bel po’ dei miei per un’imprevista emergenza. Per prendere quell’ellepì avevo dato fondo ai miei risparmi segreti personali, roba fatta di monete da 500 lire sottratte quando possibile al resto della spesa e imboscate in fondo al cassetto. Mi avevano spinto all’acquisto un paio di compagni solitamente ben informati che me li avevano descritti come un “gruppo anarchico” canadese. 

Non li avevo mai sentiti, i Godspeed You! Black Emperor, e più che il loro nome bizzarro era stata proprio quella definizione di “gruppo anarchico” ad incuriosirmi: nel 1998 avevo quarantun anni, mi ritrovavo in spalla un carico di famiglia e di brutti pensieri che si era venuto a sostituire al mio mondo precedente fatto per buona parte di concerti viaggi notti in bianco in stazione interviste autoproduzioni deliri e cazzeggi. A voler fare un rapido riepilogo della situazione, adesso avevo un lavoro di merda che dovevo tenermi stretto per forza, un mutuo da pagare, una fede al dito e due figlie piccole di cui una handicappata gravissima – e faccio presente che moglie e figlie non erano né sono mai state per me un problema, anzi. 

Insomma avevo cambiato vita, e nell’inciampare in un disco di un “gruppo anarchico” mi sorprendeva piacevolmente ci fosse ancora in giro qualcuno che continuasse a mandare avanti quelle belle vecchie cose anarcopunk di una volta che anch’io avevo in qualche modo vissuto ed amato a vent’anni, quei ragionamenti che avevo condiviso e sostenuto nella mia vita precedente. Immaginavo che dai solchi saltasse fuori una cosa tipo che so dei D.o.A. più giovani, ma ho scoperto ben presto che mi ero sbagliato. Anzi no. Anzi sì, cazzo. 

All’impatto del primo ascolto, anzi dei primi ripetuti ascolti, i Godspeed You! Black Emperor mi avevano davvero disorientato. Non mi sembravano affatto un “gruppo anarchico”, appunto perché ero rimasto inchiodato a quella versione anni Ottanta di “gruppo anarchico” che mi abitava in testa. Un “gruppo anarchico” per me erano i Crass, i Flux, le Poison Girls, Millions of Dead Cops, Franti, Chumbawamba, gli Ex, i Kina, i Raf Punk quella gente lì ecco. Nel pensare a un disco di un “gruppo anarchico” ero quindi abituato a suoni organizzati in maniera completamente diversa ed a diverse strategie di comunicazione – mi riferisco in particolare all’impatto frontale dei testi delle canzoni, quasi tutti inevitabilmente terribili e catastrofici, e alle copertine dei dischi, quasi tutte altrettanto terribili e catastrofiche e nere di disperazione.

Le canzoni, intanto, che dentro a quel disco dei Godspeed non c’erano e che nemmeno ho trovato nei dischi successivi. Al loro posto dei monoliti nebbiosi in uscita tentacolare e insidiosa dagli altoparlanti che ho fatto fatica a dosare a basso volume e a modica quantità, roba senza un preciso inizio né una precisa fine collocata fisicamente tra il bordo esterno del disco e l’etichetta col buco in mezzo. Strati sopra strati di rumore e suono – anzi meglio un alternarsi di ansia e speranza, di malessere e aria pura, di luce e buio pesto tradotti in onde sonore. Sembrava Stravinsky, altro che i D.o.A.: musica impossibile da afferrare con le mani ai primi tentativi e dal potere magnetico e suggestivo, che allora mi ha spiazzato ed emozionato profondamente. Non solo: musica che ancora oggi mi agita, mi emoziona, mi sorprende ad ogni ascolto e mi trasmette un fortissimo senso di appartenenza.

“…Suoniamo pezzi strumentali e non abbiamo un cantante, ma il fatto che non ci sia un cantante e non ci siano dei testi non significa che non abbiamo niente da dire. Non ce ne frega niente di suonicchiare melodie stucchevoli e passive e carine che siano solo un grande vuoto con niente dentro. Vogliamo dare ai ragazzi degli stimoli e creare una specie di situazione, e questo prende la forma dei pezzi che ci sono nei nostri dischi, dei filmati che proiettiamo durante i nostri concerti, come anche gli spezzoni di registrazioni di merda recuperate in giro che si intrecciano alle nostre storie e finiscono nei nostri pezzi…” (da un’intervista alla fanzine Zeen).

Da allora il gruppo ha pubblicato una decina di album, tutti grossomodo simili come impatto e consistenza eppure diversissimi fra loro, ciascuno decisamente spinto verso la zona rossa nella scala della difficoltà all’approccio eppure tutti da correre a riascoltare daccapo subito appena terminano. Formazione elastica e multipla e variabile tre chitarre due bassi due batterie più archi ed altro ancora, i musicisti occupati a creare strati di tensione stupore meraviglia incanto suggestione – sì dai lo so mi ripeto ma quando ascolto i Godspeed mi tremano le mani, mi perdo, il cuore si mette a fare i salti e faccio fatica a trovare le parole.
E a proposito di spezzoni di registrazioni di merda trovati chissà dove, questa è la trascrizione del nastro che è finito dentro “The dead flag blues”:

L’auto incendiata e non c’è nessuno al volante.
E le fogne sono tutte intasate con mille suicidi solitari.
E soffia un vento oscuro.
Il governo è corrotto.
e noi sotto l’effetto di così tante droghe.
Con la radio accesa e le tende tirate
intrappolati nel ventre di questa macchina orribile.
E la macchina sta sanguinando a morte.
Il sole è caduto 
e i cartelloni pubblicitari ci osservano 
e le bandiere sono tutte morte appese alle loro aste.
E’ andata così.
Gli edifici sono crollati su se stessi.
Le madri stringevano i bambini raccolti tra le macerie
e si strappavano i capelli.

L’orizzonte bellissimo in fiamme.
Tutto metallo contorto che si estende verso l’alto.
Tutto lavato in una foschia arancione sottile.
Ho detto – “Baciami, sei bellissima…
questi sono davvero gli ultimi giorni…”
Mi hai preso la mano e siamo caduti dentro
come un sogno ad occhi aperti o una febbre.
Ci siamo svegliati una mattina e siamo caduti ancora un po’ più giù. 
Di sicuro è la Valle della Morte.
Apro il portafogli
ed è pieno di sangue. 

Senz’altro un metodo ingegnoso per innescare il movimento dei pensieri. Anche la registrazione finita dentro a “Storm” non è male, chissà quante volte ne abbiamo ascoltata una press’a poco simile – che è poi finita lentamente a sedimentarsi nell’anima e a diventare parte del nostro panorama interiore, della nostra normalità:

Benvenuti al supermercato Arco, aperto tutto il giorno.
Avvisiamo la clientela che quelle persone che si offrono di aiutarvi alla pompa di benzina, vogliano lavarvi il parabrezza o vendervi qualcosa non fanno parte del nostro personale e non hanno alcuna relazione con la nostra azienda.
Vi invitiamo ad evitarle e, nel caso si verifichi un problema di qualsiasi tipo, rivolgetevi senza esitazione al nostro personale in uniforme all’interno del supermercato. 

Grazie per aver scelto di fare la vostra spesa al supermercato Arco, aperto tutto il giorno, e buona giornata.

La prima volta che ci siamo incontrati coi Godspeed è stato a Marghera, ormai qualche anno fa, al centro sociale Rivolta. Luca, uno del giro degli amici di mia figlia, da tempo era in contatto con Mauro, uno dei musicisti del gruppo figlio di emigrati italiani in Québec, ed era rimasto sorpreso del fatto che a casa nostra ci fossero tutti i loro dischi – certi trentenni fanno fatica a rapportarsi con dei sessantenni che amano ascoltare musica tutta storta, e come dargli torto. Luca e il suo amico italocanadese si erano dati appuntamento al concerto e all’ultimo momento s’era liberato un posto: vengo io, se vi va. Vedo lui e gli altri un po’ perplessi, ma gli passa presto: carichiamo il vecchio, dai. Prima di salire in macchina prendo qualche cosa prodotta e stampata da stella*nera e un paio di numeri arretrati della A/Rivista Anarchica con dentro qualcosa scritta da me – metti che possa venire utile. 

Prima del concerto si resta a bere una birra in mezzo alla folla, io vado a piazzarmi all’unico tavolo dove c’è seduto un tipo da solo – avevo in qualche modo capito che era un forestiero perché non stava digitando su uno smartphone come buona parte degli altri lì fuori. Come al mio solito faccio presto ad attaccare bottone, viene fuori che lui suona la chitarra nel gruppo. Gli mostro quel po’ di cose che ho portato con me e gliele do – lui si incuriosisce di “Non classificato” dei Franti, ma si concentra su “No love, no peace” dei Crass. Quando gli dico che a quel concerto c’ero, e che ho fatto le foto e le registrazioni, e che le cose dentro il libro le ho scritte oppure tradotte io, si stoppa, mi guarda fisso e mi dice acido che pensa che gli stia raccontando una balla: è impossibile, dice, è successo più di trent’anni fa… Vengono a chiamarlo perché tocca a loro suonare, lui entra e io lo seguo. Il concerto è vorticoso e di alto livello, come speravo, una tempesta perfetta – peccato però per l’amplificazione scadente.
A fine concerto mentre ci si dirige al parcheggio Luca e gli altri amici di mia figlia commentano la serata. Uno di loro a un certo punto si allarma perché c’è gente che mi chiama a gran voce e che ci insegue. Sono il chitarrista di prima e i due bassisti, che ci raggiungono: ma davvero hai fatto tu queste cose? Sì – gli rispondo. Credete di fare delle cose fighe solo voi canadesi? E davvero c’eri al concerto dei Crass? Sì, trentacinque anni fa avevo trentacinque anni di meno. Ci mettiamo a ridere e in una manciata di secondi è praticamente come una volta, come quando da ragazzo andavo in giro col registratore a rompere le palle a quelli che suonavano.
Siamo rimasti a bere insieme là fuori ancora per un bel po’, ci siamo scambiati numeri e indirizzi che nel tempo abbiamo usato spesso – ci siamo scritti e sentiti ogni volta che sono venuti a suonare in Europa, e ci siamo visti altre volte quando sono passati per l’Italia, ad appiccare quei loro meravigliosi e devastanti incendi anarchici anche in questa parte del mondo. 

Col tempo mi sono accorto che su grande parte delle mie speranze non mi ero affatto sbagliato: c’è parecchio ragionamento che tiene in piedi le loro opere, oltre che parecchia anarchia immaginata e praticata e condivisibile. Insomma, i Godspeed sono un gruppo anarchico – e senza virgolette intorno.
Loro sono complessivamente svegli e determinati, ma gli piace tenersi un po’ distanti. Hanno ragione, sanno bene quello che fanno. Il gruppo si è sempre mosso rivendicando ferocemente la propria indipendenza, il loro chiamarsi fuori dal sistema totale e radicale – i Godspeed realizzano e stampano da sé i propri lavori (e non li concedono in licenza all’estero, esattamente come una volta facevano e tuttora fanno i Crass e solo pochi altri) e li diffondono a un prezzo accessibile, gestiscono in proprio tutta la loro attività dalle registrazioni ai concerti alla distribuzione dei dischi, sono molto attenti a scegliersi i palchi e ritrosi, a dir poco, nel concedersi alla stampa. Un atteggiamento che chi ha la memoria lunga per certi versi troverà accostabile a quello mantenuto durante gli anni Ottanta dall’anarcopunk europeo più intransigente nei confronti dei giornali musicali – succedeva spesso che certe dichiarazioni venissero ritagliate e decontestualizzate, e che le interviste venissero abilmente manipolate così da screditare i musicisti. 

Tracce evidenti se ne possono ritrovare anche nella vena polemica di alcune uscite scritte del gruppo (come la lettera aperta che ho riportato all’inizio), nonché nelle scelte grafiche delle copertine – a titolo di esempio, sul retro di “Yanqui UXO” (Constellation, 2001) campeggia lo schema di relazioni che connettono l’industria bellica all’industria dello spettacolo, giusto per non dimenticare che i padroni della musica sono gli stessi delle fabbriche di bombe e fucili.

Marco Pandin
stella_nera@tin.it

Foto di copertina di Luca Borsato

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