immagine per racconto band oi!

Vita, morte e miracoli di una band oi! | Racconto

Un racconto di Terzo Acquatico su una iconica e misteriosa band oi!

Il vento che soffiava dal fiume, non potendoci scompigliare i capelli, ci schiaffeggiava in piena faccia illividendoci le labbra.

Ce ne stavamo lì fermi.

Tenevamo gli occhi fissi sul battello che lentamente attraversava il canale, infrangendo la stessa acqua che meno di ventiquattr’ore prima aveva bagnato le rive selvatiche del lago Vanern; che sotto di noi veniva ora spinta a calci e cazzotti delle battigie artificiali del Gota.

Mi voltai verso il mio amico, lo inquadrai nel paesaggio intorno, e mi parve improvvisamente tutto così surreale, che mi saltò di fargli una domanda; una sola, che rimase per un po’ sulla punta delle labbra, scivolandomi tra i denti, e precipitando di nuovo giù per la gola in uno scuotere di capo.

Mi limitai a tenerla a mente.

«Ma come diavolo siamo arrivati fino a qui?».

In un pomeriggio d’estate di otto anni prima, io e P. facevamo rimbalzare i sassi piatti increspando lo specchio del lago di B., in un anfratto sconosciuto dove si avventuravano solo nudisti ed eroinomani. La nostra vecchia banda s’era dissolta trascinandosi nella tomba gli unici due gruppi punk rock della nostra città. In quel momento noi ci stavamo spremendo la testa per cercare di tirare avanti, e l’unica cosa di cui eravamo assolutamente sicuri, dopo aver suonato in band separate per almeno cinque o sei anni, era che stavolta saremmo ripartiti insieme.

Il barista del pub dove andavamo a bere era un tipo a posto, uno con la fama del mezzo matto, girava in una delle comitive di sbandati nella costellazione dei muretti della città. Qualche volta le nostre bande di drogati erano venute in contatto: storie picaresche di bandiere rosse sventolate impavide, scambi di persona e rastrellamenti di nazi-skins in tenuta da guerra. Alla fine dell’epopea, una cassa di Hoffbrau e una sonora sbronza sugli scalini dei campi da tennis erano bastati per rimettere ogni cosa al proprio posto.

P. mi disse che il barista, D., diceva di suonare il basso: dove e quando e perché non sapeva dire. Lo chiamammo a fare una prova al M. studio, in un paese vicino, portai una cassa di birra per divertirci un po’.

D. non aspettava nemmeno che la canzone fosse finita per stappare una boccia:

«Scusate rega’, me serviva un altro po’ de carburante».

La sua voce baritonale serviva poco e niente alla nostra causa, ma la cavalcata delle dita sulle corde d’acciaio era tutto un programma, camminava proprio come lui: sconnessa, forastica e nervosa, cattiva.

A settembre dello stesso anno facemmo la nostra prima uscita all’interno di una giornata organizzata dal circuito antagonista della zona, e credo che per gli standard dell’epoca andammo anche piuttosto bene. La stessa cosa non si poteva dire delle registrazioni in studio: per quel genere di cose ci vuole una certa precisione, e all’epoca non avevamo sicuramente la pazienza necessaria. Facemmo un paio di dischi che appena masterizzati finirono dritti giù per il cesso, senza nemmeno essere stampati. Facevamo schifo, ma le canzoni erano buone.

In una drammatica notte d’estate ci affrontammo sulla spiaggia, fuori da una festa in un locale balneare della città, ci strillammo in faccia per un’ora buona, e alla fine decidemmo che se un nuovo disco non avesse rappresentato una svolta, il gruppo poteva andare a farsi fottere.

Prendemmo J. alla chitarra, un ragazzo straniero che parlava l’italiano poco e male, ma era uno che con lo strumento ci sapeva fare. Registrammo in uno studio di metallari campagnoli il nostro primo, vero disco, “S. S.”. L’impatto su di noi fu devastante: ora finalmente ci chiamavano nei posti dove avevamo sempre voluto andare, ci trattavano decentemente, qualche volta ci pagavano pure.

Da un paio d’anni uscivamo insieme tutti i santi giorni seguendo i ritmi e gli itinerari di D., che da quando si alzava al pomeriggio a quando andava a dormire all’alba aveva la vita più incasinata, turbolenta e tragicomica che avessi mai visto. Ce ne andavamo su e giù, tutto il giorno giù e su per la via Romana, io vedevo nemici dappertutto, lui invece era amico di tutti. Amico pure dei miei nemici.

Ricordo che a quel tempo avevo ancora un briciolo di ambizione e una sana passione per la musica e per il palco, tutte cose fantastiche che mi avrebbero poi lentamente abbandonato. Decisi di mettermi in prima linea e di gestire le parti più serie della band, dalle grafiche ai contatti per i concerti, ai recapiti delle etichette ecc. J. era stato cacciato dalla band senza alcun motivo. Ripensandoci, credo che l’unica vera ragione fosse che a quel punto noi volevamo assolutamente K. nel gruppo. Era venuto con noi per sostituire J. in un concerto all’estero, e una volta tornati a casa tutti guardavano J. in modo strano. Poco dopo se ne dovette andare per forza.

D. aveva messo a punto un sistema, una specie di piccolo stillicidio vietnamita a doppia trappola mortale, col quale riusciva ad avvelenare i pozzi di conversazione ragionevole, e riattizzare una storia da niente alimentandone le fiamme in un crescendo da tragedia greca; era veramente un maestro in quella disciplina, una tecnica perfetta, ed il vero colpo d’artista stava nel fare in modo che qualcun altro facesse il lavoro sporco. Qualcun altro tipo me.

Presi i contatti con varie etichette, di cui un paio straniere, per la registrazione di un 45 giri nell’inverno del 2007. Con quel dischetto in mano spingemmo ancora di più, e cominciammo mano a mano a calpestare tutta la nazione e varcare anche i confini della madrepatria. Tra di noi c’erano delle regole mai scritte, e una di queste prevedeva che i testi dovessero mantenersi sempre cristallini: mai e poi mai avremmo dovuto scrivere una spacconeria solo per fare scena, come invece facevano gran parte delle band che incontravamo per la nostra strada.

Birra e oi!, calcio e stile, risse e sbronze nel mio cuore.

Birra e oi! va bene, calcio e stile pure, ma non facciamo una rissa insieme da anni. Al massimo ci scappa qualche scazzo al bar.

Birra e oi! Calcio e stile, scazzi e sbronze nel mio cuore.

— Da paura.

Un paio d’anni dopo lavoravo in un cantiere a B., vicino a dove vivevamo noi. Stavo scrivendo un sacco di roba nuova e volevo che il nuovo disco fosse eccezionale. Lo avevo detto chiaro e tondo anche a L., il nostro amico e cosiddetto manager: se questo disco non è una granata, mollo tutto. Avevo finito tutte le canzoni, P. ne aveva messe un altro paio, e avevo buttato giù la scaletta sulla cartoccia sporca di un cemento a presa rapida: oramai mi era stata data carta bianca per questo genere di cose. Tutti i pomeriggi, nelle due ore di stacco tra il mio cantiere e l’inizio del turno di D., provavamo la sezione ritmica del disco un paio di volte nella baracca che avevamo sistemato a sala prove, comprando pezzetto a pezzetto amplificatori, cavi e microfoni. Alla vigilia delle registrazioni tutto era perfetto. A. era il nostro chitarrista nuovo, il più forte che avessimo mai avuto, ma con una personalità troppo indipendente per reggere a lungo.

“A.N.A.O.” impattò sulla scena più forte della granata che avevo sognato. Erano dieci pezzi micidiali, suonammo dappertutto, ci seguivano tutti quanti, era all’epoca il sogno della mia vita. Giravamo per le strade della nostra città con il petto gonfio come piccioni, pieni di boria, la gente ci trattava come i paesani che eravamo, ma le nostre labbra tradivano in un sorriso beffardo: se tu sapessi, stronzo, quanti palchi di quante grandi e piccole città hanno pestato questi dr.Marten’s…stronzo.

Un video dell’epoca per un nostro nuovo singolo, “F.M.”, ci immortalava sulla strada per il nostro tour francese, con una banda di compari ed il nostro nuovo chitarrista, M. Il ruolo del chitarrista del gruppo era sempre stato un fardello pesantissimo da portare. Io, P. e D. siamo la band, così è sempre stato e sempre sarà. Tu stai zitto e fai quello che ti diciamo noi. Questa doveva essere la sensazione che davamo al nuovo arrivato, ogni volta. Sono sicuro fosse questa. Se P. Fosse stato più bravo a suonare la chitarra non avremmo mai cercato nessun altro, è la verità pura e semplice.

Non potevamo saperlo, ma nei due anni anni a venire avremmo goduto ancora del successo di quel disco. Poi, per un motivo o per un altro le nostre vite sarebbero cambiate, ci saremmo sparpagliati in giro come rami secchi a tramontana, ed avrei fatto la classica pensata che ogni tanto mi attraversa il cervello, e che ogni volta mi ostino a scambiare per una buona idea: prima che la tensione rovini anche la nostra amicizia, sciogliamo il gruppo.

P. e D. non avrebbero compreso, forse non c’era niente da comprendere. I rapporti sarebbero rimasti freddi per qualche anno prima che l’amore dell’uno verso l’altro ci avvicinasse ancora, l’uno ancora verso l’altro. Non sono mai stato particolarmente lungimirante, ma ho sempre avuto fortuna.

Come ho detto, io e P., su quel ponte che solenne sorveglia il Gota trascinare le foglie morte degli alberi del parco, queste cose non le sapevamo ancora.

Era il nostro periodo d’oro e la città di G. ci accoglieva forse per la terza volta su uno dei palchi più importanti della nostra storia. Guardavo P., e poi me lo riguardavo ancora, lo sguardo chiuso da uomo d’acqua dolce come il mio, il mento diffidente come il mio, le spalle marcate come le mie. E me lo chiesi ancora.

Come diavolo è mai possibile che, almeno per un decennio della nostra vita, siamo sfuggiti alla catena, abbiamo sfidato un destino che ci pretende inchiodati a morte ai nostri paraggi, come i nostri fratelli, come i nostri padri, i nostri nonni.

E no, non c’è il punto di domanda, perché in fondo conosco la risposta.

Avrei continuato questa vita per molti anni a venire.

Fino al giorno in cui una terribile malattia attraversò le frontiere e i continenti, portando prima la morte del corpo e poi quella dei nostri sistemi sociali, io ho continuato a correre, di stazione in stazione, su mille palchi diversi, appiccicando dischi in vinile, uno dopo l’altro sul curriculum del muro di casa, irrobustendo le mani da cantiere e rafforzando gli avambracci, fino a quando suonare la chitarra e scrivere canzoni era diventato per me più semplice che respirare.

Ma a volte mi pare che, se tu mi fissi intensamente, mi puoi vedere invecchiare; mi pare di trascinarmi stremato, verso cosa, non lo so. E allora capisco che era l’entusiasmo il fiore dei nostri anni, era la gioia dell’essere sempre a un passo dal raggiungere quello che un tempo era il grande sogno, a vent’anni e con i miei migliori amici. L’entusiasmo, era quello il punto.

Era quello che li ha resi i giorni più grandiosi della mia vita.

Racconto scritto da Terzo Acquatico